I piccoli comuni italiani hanno una legge, la n. 158 del 6 ottobre 2017, che li tutela e ne riconosce l’indispensabile ruolo e funzione.  Tale normativa considera interesse nazionale la difesa della residenza nei piccoli comuni, nei quali chi ci vive oltre ad assicurare la cura dell’immenso patrimonio esistente, svolge anche una funzione di presidio e tutela del territorio dal dissesto idrogeologico.

Si tratta non solo di affermazioni di principio ma di una netta inversione di tendenza rispetto al passato, quando con troppa leggerezza si spingeva in direzione dello svuotamento delle campagne a favore delle città.

La legge istituisce il Fondo per lo sviluppo strutturale, economico e sociale dei piccoli comuni e si prende finalmente atto del fatto che l’Italia è il Paese dei mille campanili, che non è solo uno slogan, perché in esso si ritrova quella coesione sociale e quelle reti di prossimità che hanno consentito il  superamento della grave crisi.

Introduce all’articolo 13 il principio secondo cui i piccoli comuni esercitano in forma associata mediante Unione di Comuni e Unioni di Comuni montani le funzioni di programmazione in materia di sviluppo socio economico nonchè quelle di impiego dei fondi strutturali dell’Unione Europea, finora attribuite solo ai grandi Comuni. Sono inoltre inserite una serie di garanzie per le comunità interne e rurali.

Con questa normativa lo Stato torna a farsi soggetto attivo e garante, crea le condizioni per le quali i territori possono riorganizzare servizi e investimenti rispettandone le peculiarità e si vincola a erogare servizi essenziali nei territori dei piccoli comuni come uffici postali, trasporti, scuola, banda larga. Per la prima volta la specificità dei territori sui quali le comunità dei piccoli comuni vivono viene presa in considerazione e si privilegia la coesione sociale e territoriale ed il protagonismo delle realtà locali rispetto all’assistenzialismo e all’indifferenza dello Stato.

Oggi i Sindaci dei piccoli comuni possono diventare i veri protagonisti dello sviluppo locale dei loro territori, a condizione che siano capaci di mettere da parte i piccoli interessi municipalistici e di lavorare in squadra tra loro al fine di rendere concreti con i loro risultati quel processo che la legge intende aprire.

E’ evidente che la nuova normativa non risolve i tanti ed annosi problemi che vivono i piccoli comuni, ma dopo anni nel corso dei quali si è perseguita una politica volta non solo a ridurne il numero attraverso un accorpamento forzato, ma anche a limitarne ruolo e funzioni con tagli indiscriminati ai trasferimenti finanziari, rappresenta una reale svolta che occorre saper utilizzare.

Non c’è dubbio alcuno che l’eccessiva frammentazione è di impedimento al miglioramento della qualità, quantità e costo dei servizi. Ed è per tali ragioni che è stato previsto fin dal 1990, con la legge n. 142, lo strumento dell’Unione dei comuni che in tante regioni è stato fortemente utilizzato ed incentivato, con risultati ampiamente positivi. In Calabria tale tematica è rimasta ai margini del confronto politico ed istituzionale.

Sarebbe un grave errore dividersi fra quanti ritengono più utile lavorare in direzione della nascita di una rete di unioni che prepari il terreno per le successive fusioni, e coloro che propongono di passare subito alle fusioni. Ritengo invece opportuno ed indispensabile approvare con urgenza una moderna normativa regionale, per disciplinare e incentivare le une e le altre e lasciare decidere ai comuni in piena ed insindacabile autonomia, quale scelta compiere.