Colombero, parola di sindaco e papà: “Ecco cosa serve alla montagna per diventare un posto dove far crescere i figli”
Il Piemonte è tra le regioni più colpite dallo spopolamento montano: in borghi come Marmora non nascono bambini da anni, nonostante il turismo. Il sindaco Colombero intervistato da Pier Paolo Luciano riflette su come rendere la montagna vivibile per le famiglie.

L’inverno demografico dell’Italia ha un suo epicentro in montagna. E il Piemonte è una delle regioni che avverte di più le scosse di questo fenomeno: 143 dei 358 borghi d’Italia senza bambini sono qui, ci sono paesi dove non si vede un fiocco rosa o azzurro da dieci anni.
Uno di questi è Marmora, meno di sessanta abitanti, in alta valle Maira, nel Cuneese, valle diventata modello di un turismo alpino diverso (non ci sono impianti di risalita), che piace molto ai turisti stranieri (circa centomila presenze l’anno). Ne è sindaco Roberto Colombero, 49 anni, veterinario e presidente dell’Uncem Piemonte, l’ente che rappresenta i comuni montani. E’ anche papà di due bambini ed è dunque l’interlocutore giusto per capire cosa servirebbe perché la montagna diventi un posto dove far crescere i figli.
Presidente, come spiega la maglia nera del Piemonte?
«Siamo la regione d’Italia con il maggior numero di piccoli comuni, 550 dei quali in montagna. Un dato statisticamente decisivo. Ma la verità è che l’inverno demografico colpisce tutta l’Italia perché è un’emergenza che non viene affrontata a livello di Paese. Ormai anche comuni con 7-8 mila abitanti fanno i conti con gli effetti del calo della popolazione. E si sta aggiungendo un fenomeno relativamente nuovo, come il calo degli immigrati, di nuovo per la mancanza di un’adeguata politica sull’immigrazione. Tante famiglie di stranieri lasciano il Piemonte per la Francia perché possono contare su un welfare più incisivo».
Tra i paesi dove non nascono bambini da dieci anni c’è Marmora, dove lei è sindaco da un anno. Un trend difficile da invertire?
«In realtà, in paese ci sono due bimbi piccoli, regolarmente iscritti all’anagrafe di Marmora. Così come a Canosio, il paese confinante, dove sono stato sindaco per dieci anni, dal 2009, ci sono due coppie giovani con cinque figli in tutto. Numeri che cambiano sensibilmente la mappa demografica di un paese di 40 abitanti. Ma non possiamo parlare di un’inversione di tendenza anche se, in generale, negli ultimi anni in tutti i comuni dell’alta valle Maira stanno nascendo bambini. Il problema semmai è trattenerli».
Molte famiglie con bambini piccoli sono costretti a scendere a valle per la mancanza di servizi. E’ così?
«Sì. Ed è accaduto anche a me. I miei due figli, che oggi hanno sette e cinque anni, sono nati a Canosio, ma poi siamo dovuti scendere a Busca per poter contare su strutture come l’asilo nido e la scuola materna. E’ stata una scelta dolorosa, sofferta, ma obbligata per conciliare le esigenze di lavoro mie e di mia moglie, che insegna in valle. La questione dei servizi è davvero il primo irrisolto problema della montagna».
Più del lavoro?
«Assolutamente sì. Il lavoro qui non manca. In valle Maira c’è più offerta che domanda. Soprattutto le strutture turistiche devono fare i salti mortali per trovare il personale. Ma anche in altri settori – l’agricolo-forestale, per esempio – si stanno creando opportunità. Il problema viene dopo aver ottenuto il lavoro: quando devi accettare tutta una serie di sacrifici, che raddoppiano se hai dei figli. Non è facile reggere all’impatto. Il mondo bucolico ti svela l’altro lato. E di certo sono una soluzione parziale i crediti di imposta offerti dalla riforma Calderoli. Un incentivo che ti bruci con i viaggi per andare a fare la spesa al supermercato nel fondovalle. Servono altre politiche sociali».
A che cosa pensa?
«Non c’è una ricetta unica. Però è chiaro che serve una risposta diversa sui servizi. Bisogna puntare di più sull’innovazione. Oggi la tecnologia ti offre soluzioni che dieci anni fa erano impensabili e che possono aiutare un’amministrazione comunale ad andare incontro alle esigenze di una famiglia, soprattutto se è giovane e dove entrambi lavorano. Ma bisogna anche cambiare mentalità»
Cioè?
«Non ci si salva da soli. Non si può pensare di affrontare i tanti problemi della montagna come singolo comune. Bisogna ragionare a livello di valle, fare rete tra paesi per garantire i servizi essenziali che, se vogliamo davvero pensare in prospettiva, devono ruotare attorno alla scuola».
La scuola come motore?
«Per quello che garantisce: la socialità. Può essere bellissimo far crescere un figlio in mezzo alla natura, nell’aria incontaminata, ma non puoi costringerlo a un isolamento come fosse un prigioniero. Ecco perché ho qualche perplessità anche sul mantenere ad ogni costo piccole scuole: non per l’offerta didattica, che è migliore di quella che si può ricevere in una classe di più di venti allievi. Ma per l’importanza che la scuola ha dal punto di vista sociale. Ecco, perché punto a un modello di scuola come cuore pulsante di una comunità, con un ruolo che vada oltre l’insegnamento. Deve essere il luogo dove si organizzano attività extrascolastiche, dove un bambino può crescere in sicurezza mentre mamma e papà sono al lavoro. Dove, soprattutto, fanno amicizia e crescono insieme ad altri coetanei. Il Covid ci sta rivelando quando può nuocere sui più piccoli l’isolamento durante il lockdown, noi dobbiamo evitare che in montagna questo isolamento ci sia ogni giorno».
Le viene in mente qualche esempio?
«Qui in valle abbiamo le scuole dell’obbligo divise tra Prazzo, San Damiano Macra per la primaria, Stroppo per la secondaria di primo grado. Dove arrivano bambini da tutti gli altri comuni dell’alta valle. E sono diventate un punto di aggregazione importante anche se richiede uno sforzo per quanto riguarda il servizio trasporti. A Ostana, in valle Po, che da 30 anni porta avanti un progetto di rinascita del paese, hanno fatto un passo in più: hanno realizzato la scuola di O, che è un progetto educativo per i bambini dagli 1 ai 3 anni, nata per iniziativa della cooperativa “Viso a Viso” e del Comune, sotto la spinta delle famiglie giovani. E’ quello che serve se vuoi davvero garantire un futuro al progetto di rigenerazione di un paese».
Cos’altro manca alle giovani famiglie che vivono in montagna?
«Il pediatra. Io faccio l’amministratore da vent’anni. Nessuno aveva mai sollevato il problema perché in montagna sono soprattutto anziani. Poi nel 2018, quando sono diventato papà per la prima volta, ho capito quanto fosse un servizio importante. Ogni volta dovevamo andare a Dronero. Trenta chilometri all’andata, altrettanto al ritorno. Chiaro che non si può immaginare un pediatra a tempo pieno nell’alta valle, ma si può pensare a un servizio ambulatoriale garantito con continuità, che ti costringa a muoverti solo per le emergenze».
A pochi chilometri in linea d’aria da Marmora, sull’altro lato della valle Maira, Elva è stata trasformata in un grande cantiere per mettere a frutto i soldi arrivati con il Pnrr grazie al bando dei borghi: è la strada giusta per dare un nuovo futuro alle terre alte?
«Premesso che spero che a Elva come tutti i borghi selezionati siano solo successi, da subito come Uncem abbiamo detto che il bando è quanto di più lontano ci possa essere rispetto a quel che serve alla montagna: c’è bisogno di una visione, non di una pioggia di contributi. Quel progetto guarda ai paesi scelti come a una cartolina, non una comunità. Alla fine avremo venti cartoline da spendere in chiave turistica, soprattutto all’estero, ma il futuro della montagna si costruisce diversamente. Meglio sarebbe stato dividere il miliardo di contributi in due parti: 500 milioni per dar forma a progetti anche meravigliosi di valle (e non in singoli comuni) e l’altra metà per garantire servizi chiave come istruzione, mobilità, assistenza. E’ questa la base irrinunciabile per dare un futuro alla montagna. E per attrarre coppie giovani perché senza la componente giovane non si va lontano».