La mia montagna sacra
Intervista a Enrico Camanni, alpinista e scrittore, a Chamois in occasione di alt(r)i Ascolti. Un cittadino che ama la montagna
Torinese, scrittore, giornalista e alpinista: Enrico Camanni a Chamois, in occasione della manifestazione at(r)i Ascolti, ha presentato la sua ultima fatica: La Montagna Sacra. Il libro parla del rapporto tra l’uomo e la montagna evidenziando un concetto chiave, quello del limite e questo è il senso della sua sacralità: il riconoscimento di confini da rispettare. Limiti che sempre più spesso vengono superati attraverso il dilagare di progetti speculativi.
Qual è il possibile modello di sviluppo del turismo in montagna?
«Non esiste una ricetta e non c’è un posto uguale all’altro. Sappiamo bene quali sono gli errori da non compiere, ma il nostro è un mondo complicato: si riflette su una cosa e si fa il contrario. Pensiamo alla Convenzione delle Alpi, primo esempio transnazionale di attuazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, precursore dell’Agenda 2030. È una carta lungimirante, basterebbe applicarla. Naturalmente ci sono esempi virtuosi, proprio come Chamois che, a 1800 metri di altitudine, senza auto, si colloca in una dimensione futuristica. Ma a due passi c’è un comprensorio che invece vorrebbe allargarsi, e anche dopo aver aperto il collegamento del piccolo Cervino, che economicamente non funziona perché costa troppo, vorrebbe fare quello delle cime bianche per unire il Monte Rosa sky e il distretto del Cervino».
Sulla falsariga di montagne venerate da altre culture, nel 2022 è nata la proposta di scegliere una cima e dichiararla “sacra”, impegnandosi a non salirla. Ma da alpinista, il bello delle montagne non è scalarle, camminarci, sciarci?
«Dalle Ande all’Himalaya alcune montagne sono veri luoghi di devozione, anche perché fonti di acqua e di vita, ma sono esempi che appartengono a culture diverse. Qui non possono essere replicati. In Italia è stata individuata una cima, bella, non molto frequentata, il Monveso di Forzo, tra la Val Soana e la Val di Cogne, e si è deciso di non salirla più, di preservarla. È un atto simbolico, una provocazione, perché ovviamente non è vietato salirci, però questo appello ha già raccolto circa 1500 adesioni, anche di personaggi famosi. Non so se sia servito a qualcosa. A me è servito a scrivere un libro, per fare il punto sul nostro rapporto con la montagna».
Qual è la sua montagna sacra?
«Quando ho iniziato a scrivere questo libro me lo sono chiesto: se scrivo di montagne sacre, qual è la mia? Lo racconto nel primo capitolo: ne ho più di una, ma la prima è certamente la Becca di Guin, un 3.800, fa parte delle Grandes Murailles. Quando ero un ragazzino e andavo in vacanza in Valtournenche ero affascinato dal luccichio del suo nevaio triangolare, che ormai non c’è più. È una montagna facile, una salita di terzo grado. Ho provato a scalarla quando già ero bravo, in una giornata bellissima, perfetta per l’ascensione, ma improvvisamente ho avuto un capogiro e ho costretto il mio compagno di cordata a tornare indietro con me. Per tutta la vita mi sono chiesto perché. Non ci sono più tornato e col tempo ho deciso che per me quello sarebbe rimasto un amore inviolato e inviolabile. C’è qualcosa nella vita che dobbiamo mantenere come desiderio».
Cosa si cerca in montagna?
«Nel libro cito Amé Gorret, un prete valdostano dell’Ottocento, il primo salitore della via italiana del Cervino: aveva già capito che non si può andare in montagna per ritrovare la città, non avrebbe senso. Ma non tutti cercano la stessa cosa. Principalmente, esistono due forme di turismo, uno è frenetico, fatto di persone che inseguono emozioni, ma che quando tornano a casa non hanno capito niente dell’ambiente che hanno attraversato. È un turismo che non consente profondità, né la vuole, che alimenta la crescita di impianti di risalita a quote sempre più alte, lasciando dietro di sé una rugginosa archeologia industriale. L’altro, in aumento, è lento, responsabile, cerca l’esperienza e lo scambio con le persone che vivono in montagna. Questo è capace di futuro, non depreda le risorse, porta benefici e crea consapevolezza. Sono modalità che convivono, senza interagire. In Valtournanche l’esempio è chiarissimo: abbiamo Chamois e Cheneil, luoghi sospesi nel tempo e Cervinia a due passi».
Quindi dovremmo far prevalere il secondo sul primo?
«Sono due modelli che dovrebbero imparare un po’ di più uno dall’altro. Entrambi hanno difficoltà. Anche il turismo dolce, infatti, non è esente da rischi. Pensiamo alla Val Maira, un esempio di sviluppo di turismo responsabile, a scapito di un territorio che si sta svuotando, perché questo turismo non tiene la gente in montagna. Cervinia, invece, è una città, con una comunità che vive su un turismo sempre più pretenzioso. Che ha alberghi e impianti sempre più costosi e inevitabilmente un grandissimo impatto ambientale. Cervinia ha completamente trasformato una conca in cui un tempo c‘era solo un alpeggio. Da qui non si torna indietro».
A proposito di città: quanto sono lontane città e montagna?
«Sono due mondi che non possono fare a meno l’uno dell’altro. La montagna offre alla città spazi enormi, di cui la città ha bisogno. Ma anche la montagna ha bisogno delle energie delle città. Qualunque scontro è anacronistico. I luoghi dove le cose funzionano meglio sono quelli dove c’è ibridazione, dove c’è scambio».
Come è cambiata la montagna?
«Relativamente poco. È cambiato molto il sentimento attraverso la letteratura. Alcuni hanno trovato le parole per descriverlo, anche se è prevalentemente urbano, perché la maggior parte dei libri è scritta da cittadini. Molti altri raccontano una montagna un po’ zuccherosa, di amicizie, di animali, incontri, ma a volte anche la montagna che mi piace, contemporanea, fatta di cose belle e brutte. Se un libro nasconde tutte le cose brutte fa un pessimo lavoro».
E lei, è montanaro o cittadino?
«Io sono cittadino al 100%, da ragazzo sarei andato a fare la guida alpina, ma quando ho cominciato a crescere, a superare questa febbre della passione, ho capito che sono un cittadino che ama andare in montagna».
Nel suo libro racconta come l’industria degli sport invernali sia alimentata da denaro pubblico. I poveri pagano la neve finta dei ricchi, i portatori muoiono su K2 per i capricci dei ricchi. Quali alternative?
«Se negli anni ’60-‘70 tutti potevamo permetterci di sciare, oggi sta diventando uno sport di élite. Il mondo si sta sempre più divaricando tra chi non riesce ad arrivare alla fine del mese e i super ricchi, che vanno con il sottomarino a vedere il Titanic o sulla luna con i razzi. Dobbiamo capire che abbiamo superato il limite, ne è un esempio la costruzione della pista di bob a Cortina, duplicato di quella che abbiamo a Cesana Pariol. Dobbiamo decidere come investire i soldi. Abbiamo bisogno di tante cose, evitiamo di fare quelle che non ci servono».
Lei è stato sul K2?
«No, non sono un grande viaggiatore, preferisco approfondire; quindi, mi sono dedicato principalmente alle nostre alpi».
Ma le sarebbe piaciuto?
«Il k2 è una montagna che ho sognato, che mi ha sempre affascinato, forse perché sembra un po’ un Cervino moltiplicato per quattro. Adesso non ci vado per l’età, ma anche perché è diventata una montagna troppo commerciale».
di Francesca Corsini